Una tastiera per l’imperatore celeste. Matteo Ricci, e la musica

In missione nella Cina dei Ming tra la fine del ‘500 e il primo decennio del ‘600

Stefano Ragni

Tra Il Milione di Marco Polo e la Turandot di Puccini la figura del gesuita Matteo Ricci si innalza come un permanente monumento al processo di connessione di due civiltà culturalmente lontanissime come quella italiana e quella cinese. Con un immenso e sagace sforzo di comprensione il gesuita maceratese intuì come le barriere interposte dalla diffidenza e dalla reciproca incomprensione potessero essere superate solo facendosi cinese tra i cinesi. Un percorso inverso a quello che oggi migliaia di giovani cinesi fanno verso gli atenei e le scuole musicali italiane, desiderosi di apprendere, conoscere e interiorizzare modi di pensare e di vivere che appartengono alla modernità. Tra la fine del Cinquecento e il primo decennio del 1600 Ricci portò a compimento la sua missione trentennale di penetrazione nella Cina dei Ming, fino a lambire la corte dell’imperatore Wan Li. Non riuscì a varcarne le soglie, perché ciò era proibito a qualunque mortale.

Ma riuscì a introdurre tra le mura del palazzo gli oggetti della sua sapienza: “.. un grand’horologio, un’immagine del Salvatore ed un’altra della B. Vergine, un clavicembalo (clavicordo) non visto più da’Chini, né udito …”. Due icone della fede cattolica, un manufatto scientifico e uno strumento musicale, che sin da ora viene definito in due maniere diverse, forse nella inconsapevolezza che, organologicamente, si tratta di due cose distinte. Non sorprende comunque trovare una tastiera musicale tra gli oggetti di un omaggio che, nella brevità di un fugace contatto, doveva destare curiosità e interesse. Si ricordi, a tale proposito di cosa saranno capaci di realizzare i padri Gesuiti quando, tra Pagaruay, Argentina e Brasile faranno delle Mansiones dei fiorenti centri di produzione musicale con i nativi considerati agenti attivi sia di apprendimento che di riproduzione di modelli sonori rispettosi dei modelli sonori originari. Portando, fino nella remota Bolivia amazonica organi smontati e fatti viaggare, a pezzi, a dorso d’uomo. Nell’Impero di Mezzo le cose furono un po’ più difficili perché la Cina aveva un suo modello musicale direttamente definito dal canone confuciano.

Nel rigido comportamentismo confuciano il concetto di armonia musicale (hexie) era indicatore di un ordine sociale che codificava, nel tempo e nello spazio, le giuste norme di comportamento a cui ogni uomo deve rispondere nel suo rapporto con la gerarchia, il potere e le classi economiche. L’armonia della musica era il riflesso dell’armonia tra gli uomini chiamati a obbedire secondo indeflettibili regole di consonanza: il concetto di he definisce l’accordo e la pace che, come nella buona musica, devono regnare tra gli uomini. Il tutto vissuto con xie, ovvero giocondità e gioia comune. Matteo Ricci, che aveva vissuto nella Roma di Palestrina e di Tomàs Luis de Victoria, non era certamente ignaro delle inquietudini che la grande polifonia aveva fatto vibrare sotto le cupole delle grandi basiliche romane, luogo di elaborazione di processi di coscienza che avevano coinvolto un mondo culturale destinato a ricevere, di lì a poco, le acquisizioni scientifiche di Galilei.

Appena un anno prima dell’approccio di Ricci alla corte imperiale, Giordano Bruno era stato arso sul rogo e nessuna delle tesi del grande pensatore domenicano, già eretiche per l’Europa cattolica, sarebbe stata accettabile in un sistema sociale come quello cinese, dove la norma era “stare ognuno al suo posto”, come ogni suono deve essere nella sua giusta posizione per produrre una buona armonia. Confucio era vissuto tra l’età di Pitagora e quella di Pericle, fino a lambire la parabola di Platone: i suoi insegnamenti, rimasti perenni nel canone educativo cinese, combaceranno con quelli dei grandi greci in relazione alla regolamentazione della musica. Arte pericolosa e deviante per una società che non ne sappia sancirne l’esercizio con precise norme restrittive. Prodotto di studi classici compiuti al Collegio Romano, padre Matteo sapeva benissimo di cosa poteva parlare a un popolo immenso dove la musica, fondamentale per il percorso etico di ognuno, era valutata confucianamente come un modus operandi per il controllo di ogni comportamento politico e sociale. Di qui la comprensione, da parte di padre Ricci, di accostarsi musicalmente ai cinesi non già con la tradizione polifonica romana, perché di suonare e cantare su linee orizzontali concomitanti i saggi confuciani si dichiaravano essi stessi non capaci: “confessavano la sinfonia da’ lor Antichi conosciuta, esser svanita ne’ secoli nostri e solamente restar gl’istromenti senza l’arte”.

Le esperienze di padre Ricci a tale proposito erano state piuttosto indicative: “Tutti questi strumenti si suonavano uniti con una sorte di concerto, come Tu lettore puoi credere: perché non s’udiva consonanza, ma una dissonante discordia”. Suonare insieme, quindi, ma senza un preciso processo costruttivo che, nella musica europea, era sancito dal contrappunto. A tale proposito, nel soggiorno a Nanchino, tra il 1588 e l’89, padre Matteo aveva avuto contezza della ricchezza degli strumenti tradizionali cinesi, quando ricorda di aver ascoltato: “[…] sonor ogni sorta d’istrumenti, che erano campanelle, catini di metallo, altri stromenti fatti di pietra, ed altri di pelle, come sono i tamburi, ed alcuni erano fatti di corde di liuto, zampogne ed organi: alli quali non si dava il fiato con mantici, ma con la bocca”. L’omaggio all’imperatore di uno strumento a tastiera, su cui lo stesso Ricci equivoca definendolo sia clavicordo che clavicembalo, destò comunque gli effetti desiderati. In fondo si era offerto ai saggi di corte un manufatto sonoro che andava ad aggiungersi alla miriade di strumenti già conosciuti, ma il cui funzionamento era al momento incomprensibile. Ma la casta dei suonatori di corte era assai potente nel regolamentare l’uso della musica ritale (li), componente essenziale dei cerimoniali. Questo strumento occidentale, clavicembalo o clavicordo che fosse, poteva essere adottato con vantaggio all’interno delle funzioni di un vero e proprio Ufficio Imperiale della musica (Yuefu). Ricorda ancora Ricci: “Dopo alcuni giorni vennero a nome del Re quattro Eunuchi a ritrovar i Padri, li quali, alla presenza del Re suonavano strumenti musicali da corde. Questi son maggiori de’ Matematici, perché appresso i Chini il suonare quest’istrumenti è cosa assai onorata de’ quali dentro al Palazzo sta un Collegio numeroso. Questi chiedevano a nome del Re d’imparare a suonare il Clavicordo che i nostri avevano con l’altre robbe donato al Re””.

Secondo la disciplina gesuitica il padre Didaco, l’unico esperto di musica della Compagnia, fu inviato a fare il maestro degli eunuchi, i quali al loro primo apprendere, mostrarono di avere già specifiche preferenze: “I suonatori di clavicordo erano contenti d’una sola Canzone e due de’più giovani avevano imparato quanto a loro bastava ed uno insegnava all’altro. Chiedevano che quelle cantilene che si suonavano su’l cembalo si mettessero in lingua cinese””. Si evidenzia nel passo la confusione che lo stesso Ricci fa di clavicembalo e clavicordo, anche se si suppone che di quest’ultimo si trattasse, date le sue più ridotte dimensioni, adatte a viaggi perigliosi come quelli dell’epoca. Per soddisfare questa inusitata richiesta padre, Ricci, che ora parla di sé in terza persona, si ingegna di stendere una sorta di testo poetico. Qualcosa che potesse essere declamato col sostegno della musica, un improbabile melologo. La soluzione adottata fu la seguente: “Con quest’occasione il P. Matteo mandò fuori otto iscrizioni delle cose morali, che invitavano alla virtù e ai buoni costumi, le quali illustrolle con sentenze a proposito, tolte dalli nostri Scrittori, e chiamolle Cantilene del Clavicordo. Piacquero sì che da i più letterati furono richieste e rescritte con grand’applauso. Et accioché si desse soddisfazione a tutti si mandarono alla stampa con altre cose in carattere nostro e Chinese”. Certamente gli eunuchi musicanti riprodussero per l’inaccessibile imperatore parole e musica, cosa che giovò certamente al felice inserimento di Ricci ai margini della corte, dove visse fino alla morte, nel 1610, col nome di Li Madou. Clavicordo, clavicembalo, o, come altrove Ricci scrive manicordo, lo strumento ebbe comunque un suo destino. Scomparso il gesuita, lo strumento era ancora in dotazione alla musica di corte. Quarant’anni dopo l’imperatore Ch’ung Chen volle sentirlo suonare, ma alcune corde si erano spezzate.

Fu richiesto l’intervento di un missionario tedesco, il padre Johann Adam Schall, che riparò le corde e lo rimise in sesto. Restavano queste cosidette Otto canzoni edificanti scritte da Ricci. Il monarca le volle ripristinare per destinarle alla lettura dei suoi saggi. In tale occasione furono ristampate con una prefazione dello stesso autore: “Nell’anno XXVIII di Uanli, anno chiamato chemze, io Matteo, mi recai alla capitale e tra le altre cose offrii all’Imperatore un bel clavicembalo, strumento musicale dell’occidente, che è diverso di forma dagli strumenti musicali della Cina, e quando lo si tocca emette suoni curiosi. L’Imperatore ne restò meravigliato. Per questo i maestri di musica mi parlarono in questi termini: Sonate, ve ne preghiamo, le canzoni del vostro paese che certamente debbono esistere: noi vorremmo sentirle. A cui io, Matteo, risposi: Io straniero, non conosco altre canzoni all’infuori di alcune a sentenze morali nelle quali mi sono esercitato. Ora ne traduco il senso generale nella vostra lingua come qui appresso, notando che rendo solo il senso senza rime, poiché i suoni dei due paesi sono differenti”. Qui è nuovamente clavicembalo, ma colpisce quella espressione “suoni curiosi”. Sono semplicemente “suoni”, ma per padre Matteo, che la adottò come straordinario strumento di comunicazione, forse, la musica era una grande “sconosciuta”.

Ad aumentare il grado di indeterminatezza dello strumento di cui si parla, una celebre immagine di padre Ricci in veste di letterato cinese lo ritrae, al disotto di un’immagine della Vergine col Bambino, in piedi, la mano sinistra che indica un astrolabio, avvolto da una veste blu, lunghissima barba, con, alla sua destra, un harmonium a pedali. Una sorta di organo da “chiesa povera” che ha specifiche funzioni liturgiche, ma che non è né cembalo né clavicordo.